I racconti del caseificio: la transumanza

La transumanza.

Me la hanno raccontata in Abruzzo, ma si faceva anche in Toscana.

Mi hanno raccontato di questa immensa onda migratoria formata da uomini e pecore, che procedendo assieme, per tanti anni, da montagna a pianura, e poi da pianura a montagna, sono riusciti a cambiare la conformazione del territorio. Colline rese dolci da tanti zoccoli e pochi piedi che hanno camminato, mi immagino, con scarsa attenzione all’itinerario, al paesaggio, e certamente a sé stessi. 

In un piccolo paese abruzzese, meno devastato dal terremoto di tanti altri, mi ha parlato un giovane che si guadagnava la vita narrando storia e storie, una brava guida turistica.

“Gli uomini partivano il sei settembre, accompagnati dalle pecore e dalle lacrime loro e delle donne e dei figli che lasciavano. Camminavano per circa trecento chilometri, da farsi in meno di due settimane, sino a raggiungere le più miti terre Pugliesi. Spesso stavano con lo stesso abito per otto mesi, e si mettevano davanti una sorta di grembiule per non sporcarlo troppo. Sarebbero tornati la primavera successiva, e così tanto era il tempo in cui i pastori stavano lontani dalle loro famiglie, dalle loro radici, che mettevano radici nuove. Aeree. Gli uomini parlavano un nuovo dialetto, solo maschile, e le donne e i figli piccoli il vecchio dialetto, divenuto femminile. Chi rimaneva al paese campava come poteva, lavorando la lana, vivendo di poco, di nulla; i figli, se non morivano, sarebbero stati i futuri aiutanti di quella solita vita, magri, magri, succiati dalle streghe”.

Eh, sì, quando si subisce un forte attacco, quando si rischia la vita, si deve trovare il capro espiatorio, la strega, la cui esclusione sarà il nostro legame.

“Gli uomini procedevano di corsa lungo il tragitto con le pecore, gravide nel viaggio di andata verso le terre con il clima più mite, e dovevano anche mungere e fare ricotta e primo sale durante il viaggio. Alla tappa, al risveglio, il buttero partiva subito, a cavallo, e curava che all’arrivo alla tappa successiva, al campo,  tutto fosse già pronto per la caseificazione. Insomma, era fatica, fatica vera, di gambe, di braccia e di testa”.

Chissà che prodotti buoni e genuini avranno fatto, ha esclamato il mio amico.

E qui sono insorta. Come non avere compassione, comprensione, solidarietà con quegli uomini stanchi e sporchi, sfiniti, soli, lacerati dall’abbandono. Certamente avranno usato il loro latte, genuino, penso sempre fresco.

Ma fare il cacio … Non è solo bollire il latte con il caglio e i fermenti e poi girare, rompere la cagliata, così come si può, come viene.

Mi si perdoni, ma a noi fortunatissimi cui è consentito dormire in un letto, fare la doccia una o più volte al giorno, leggere libri, guardare insistentemente schermi che ci collegano, sempre ed ovunque, ecco, a noi non basta più nutrirsi.

Per questo io vi consiglio caldamente il nostro cacio  

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