I racconti del caseificio: il babbo

Quando lavoravo col babbo, comandava lui. Anche se era assente, malato, in ferie, al piano di sotto, di sopra, comandava sempre lui. Si era formato da solo, come una volta capitava spesso, ed era un uomo generoso e leale, che credeva spasmodicamente nella parola data. Nella sua infanzia da bambino solo, cresciuto dai Salesiani, e poi da giovane uomo che avrebbe dovuto tenere a bada l’onore della mamma e della sorella, non aveva avuto il conforto di una fede solida, né di un volto in cui rispecchiarsi. 

Non aveva fatto la guerra perché unico figlio maschio di madre vedova: aveva lavorato a lungo con la mia mamma come commesso in cooperativa e, per mettere a tacere le malelingue su tutto quello stare assieme, magari anche nel retrobottega, aveva sposato la sua compagna, poi compagna di vita, lavoro e talora grandi liti.

Lo spazio che si era creato attorno, per rimediare alle mancanze, era uno spazio rigido, dove non erano ammessi ripensamenti e condivisioni. Si faceva come diceva lui, autorità, anche autorevolezza, come potere, mai arbitrario, ma dentro una cornice precisa nella quale poteva stare uno solo. E, come ho detto, non ero io.

Ora il ricordo è un po’ svanito, è passato tempo, ma quando si parlava del mio babbo, qualche anno fa, tutti lo ricordavano con le lacrime a pelle, come un galantuomo: era lo stesso uomo che, ancora con pochi soldi e tanti debiti, non aveva venduto un appartamento del quale faticava a pagare il mutuo, e il cui ricavato gli sarebbe molto servito, perché all’inquilina era nato un bimbo con la sindrome di down. Lo stesso uomo che aveva mantenuto la parola data anche a un imbroglione, anche dopo aver scoperto che era tale, e pur sapendo che avrebbe perso soldi. A me, allora, fece arrabbiare e commuovere molto.

Mio babbo, chissà cosa direbbe di tutte le strane giravolte della mia vita, che mi hanno portato a fare questo amato cacio.

Immagino che ci si sieda all’ombra di un albero, stendendo a terra una tovaglia e, sopra del pane, una forma del nostro pecorino e un coltello, come mai siamo riusciti a fare. E lui me lo lascia tagliare, si fa anche togliere la buccia e aspetta con un sorriso, senza impazienza, che io gli porga il pezzo.

Questo gesto, sia detto senza offesa per nessuno, a me ricorda una sorta di Eucarestia. Io celebro la nostra ri-conciliazione, sto santificando non un pasto, ma il lavoro e la fatica che lo hanno prodotto.

Si, posso immaginare che avrebbe approvato il sapore, adorava il gusto pieno di un formaggio stagionato ma morbido, e poi gli piaceva la pasta bianca. Del Parmigiano cercava sempre il “Vernengo”, quello prodotto nei mesi invernali. 

Se ne è andato presto, prima che si arrivasse a produrre il Vernengo del 2001 e io, ecco, ora comando come posso. Cerco di non farmi prendere dall’invidia di qualcosa che non è stato, assumere la responsabilità di comprendere e vedere e quindi fare, dover fare, anche quando non avrei voglia.

Quindi sì, imparerò a dir grazie per questo, con tutto il mio cuore.

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