I racconti del caseificio: il viaggio

Quando vado verso il caseificio il moto trascolora in libertà. 

Percorro la mia amata strada toscana e ad ogni chilometro mi lascio indietro un ricordo e un rimpianto, mi riempio di colline e alberi e risaie e per quel tragitto io sono il signore della mia macchina. Re dell’acceleratore, imperatore del freno, signore indiscusso di tutti gli armeggi che riesco a lasciare in macchina e che ritrovo da un anno all’altro. Ma in macchina entro solo io, niente suocere.

La strada la conosco bene, molto. Perché, seppure per tragitti diversi e più tortuosi, da piccola andavo dai parenti Grossetani, e da lì, in auto, ogni mattina, verso il mare. Mi era così caro quello stare con zii e cugini che sopportavo volentieri le curve infinite per arrivare. Il babbo non mi risparmiava niente, fumava in macchina e guidava a strattoni; una volta, dopo l’ennesima fermata perché stavo male, dissi che non sarei risalita, l’avrei fatta a piedi. Come in molti ricordi di noi a noi raccontati, mi vedo: piccola, tondina, con la gonnella ampia che deve essere quella di una vecchia foto che ho in una qualche scatola. Muovo passi resi ancora incerti dallo stomaco in subbuglio, ma sono ben decisa e non rientrare nell’antro infernale della macchina paterna, dove l’odore della pelle e della tappezzeria si mescola con quello del fumo e del sudore. Penso ora, solo ora, che mio padre stava sempre in magazzino, con dipendenti, clienti, e familiari. La mamma lavorava con lui, la casa di famiglia era sopra, ed io a volte scendevo in magazzino, a volte scendeva la nonna, la sua mamma. Insomma non era mai solo, e allora anche per lui la macchina poteva essere uno spazio di libertà, e il suo frullare, quella guida piena di brusche frenate e accelerate, era il suo modo di mandarci tutti fuori. A quel paese! Ma la mamma reggeva, eh, lei reggeva sempre.

Comunque alla fine io rimontavo sempre in macchina e si arrivava, come anche ora arrivo. Ora niente parenti, niente mare, ora c’è il caseificio. 

Con il suo odore di latte che mi pare di sentire fin da quando faccio l’ultima discesa. Il caseificio continua ad incantarmi. Non importa se ogni bullone è un problema, che, diciamocelo, a volte è proprio così.

Lì si fa la magia, dal liquido al solido, si lavora e conserva il nutrimento. Chirurghi del latte pronti a fronteggiare la marea bianca e le sue improvvise acidità, immagine del vivere.

Vivere…di recente sono andata a visitare un Conservatorio che una volta era un Monastero di Clausura. Ora, appunto, adibito a Conservatorio, vale a dire ad alloggio, accoglienza. Di ricche giovani, più di un secolo fa, ora di universitari, quasi una succursale della Casa dello studente. La suora che ci ha seguito nella visita raccontava di essersi votata pensando di fare da insegnante ai bambini piccoli. E invece le era stato chiesto di sacrificarsi, e fare, quasi, l’albergatrice. Raccontava e io percepivo il rammarico, un malcelato risentimento, a malapena mitigato dal poter accudire le piante del chiostro interno. Ma, anche di quelle, le era affidata la sola conservazione, poiché per disposizione della sovrintendenza, le piante non possono che essere sostituite se muoiono, e con piante eguali. Un Conservatorio.

Ci seguiva passo passo, con aria rassegnata, sorridente e un po’ lamentosa.

Si vive così, mi sono chiesta.

Guardavo quel chiostro, illuminato dal sole, con i portici di grande armonia e mi sono immaginata la suora china, intenta a zappettare, ad accudire un vaso.  Mi sono vista mentre guardo le forme che vengono alla luce, in camera calda.

Perduta l’innocenza, il sogno di fare l’astronauta, il grande pianista, il sommo scrittore, il costruttore di ponti memorabili, lo scalatore di cime innevate, l’imbattibile guidatore di auto, lo scienziato geniale, lo spericolato motociclista, il trovatore del moto perpetuo e dell’energia  senza fine e senza costo, il cantante o chitarrista di tutti i tempi, il chirurgo dalle mani di fata, il trovatore della cura che sconfigge il tempo e il male, accolgo con incredulità, ma sorridendo, che la mia vita quotidiana trascorra lasciando tracce modeste, che a volte vorrei perfino cancellare, e che, sì, possa far cambiare tutti i miei sogni e persino finire senza chiedere permesso. 

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